La guerra arabo-israeliana del 1948 e il successivo armistizio del 1949 non risolsero definitivamente tutti i contenziosi in Medio Oriente: negli anni ‘50 la presenza dello Stato di Israele, unita alla questione dei profughi palestinesi rimasta irrisolta e soprattutto alla nuova situazione venutasi a creare nella regione in seguito all’indipendenza degli Stati arabi, provocò un rapido susseguirsi di eventi che sfociarono nella cosiddetta crisi di Suez.
In Egitto la “rivoluzione” di Nasser si manifestò nella politica estera del paese con atti di sfida all’ordine tradizionale, entusiasticamente approvati dalle masse arabe. Nel 1955 il leader egiziano, assieme al presidente indiano Nehru ed al ministro degli esteri cinese Chou Enlai e con i rappresentanti di altri paesi asiatici e africani, svolse un ruolo di rilievo nella prima Conferenza dei paesi Non-Allineati, convocata a Bandung dal presidente indonesiano Sukarno. Durante questa conferenza tutti i partecipanti espressero la volontà di lottare contro ogni forma di oppressione politica, militare ed economica esterna, rivendicando il diritto di ogni popolo alla più completa autodeterminazione.
Era già cosa nota che l’Egitto appoggiava attivamente la guerra di liberazione algerina contro la Francia, iniziata nel ‘54, e che aveva assunto la guida del fronte arabo ostile al patto di Baghdad, firmato nel febbraio 1955 da Turchia, Iraq, Gran Bretagna, Iran e Pakistan in funzione anti-sovietica (oltre che per conservare il controllo occidentale sui giacimenti petroliferi iracheni e iraniani).
A queste posizioni di Nasser si aggiunsero i continui attacchi verbali contro Israele, “il nemico sionista”, considerato un avamposto occidentale nella regione nonché unico colpevole della nascita della questione dei profughi arabi palestinesi. Era in nome della “fratellanza araba” e del panarabismo che l’Egitto si sentiva in dovere di schierarsi a loro sostegno. L’unione di tutti questi fattori indussero l’Europa occidentale e gli USA a rifiutarsi di vendere armi all’Egitto e a negargli i finanziamenti necessari alla costruzione della progettata diga di Assuan, atta a regolare le periodiche inondazioni del Nilo a scopi agricoli.
La risposta clamorosa di Nasser a questo rifiuto fu la nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez, le cui azioni appartenevano a un consorzio europeo egemonizzato da gruppi francesi e britannici. Con i proventi della compagnia si sarebbe potuto far fronte alle spese per la costruzione della diga, che l’URSS si impegnò a costruire. Quanto alle armi, l’Egitto le avrebbe importate dalla Cecoslovacchia, cioè da un paese del blocco sovietico.
Dal canto loro gli israeliani, sostenuti da Francia e Gran Bretagna e preoccupati del riarmo egiziano, in seguito alla chiusura del Canale di Suez al transito delle navi dirette verso il loro territorio, decisero di sferrare un attacco preventivo contro l’Egitto anziché attenderne la prevedibilissima aggressione. Il 29 ottobre del 1956 dunque le colonne corazzate israeliane, mediante l’operazione Kadesh, si spinsero nella Striscia di Gaza e nel Sinai, sbaragliando per la seconda volta (dopo il ‘48) l’esercito egiziano e arrivando a Sharm el-Sheik. All’epoca il Capo di Stato Maggiore era Moshe Dayan. Nel frattempo gli anglo-francesi bombardavano gli aeroporti egiziani e lanciavano paracadutisti lungo il Canale.
L’esito della crisi, comunque, non fu deciso dalle armi, bensì da un braccio di ferro internazionale, seguito da un’intesa tra Stati Uniti e Unione Sovietica (che per difendere l’Egitto aveva persino minacciato di ricorrere alle armi nucleari). In base all’intesa, le truppe israeliane dovettero ritirarsi entro i confini precedenti, l’ONU si assunse il controllo della penisola del Sinai, e lo sconfitto Nasser uscì paradossalmente vincitore: grazie all’appoggio sovietico non subì infatti alcuna perdita territoriale e, acclamato dalle folle deliranti di entusiasmo, poté presentarsi come l’autentico e autorevole campione del mondo arabo. Israele ottenne tuttavia l’accesso delle sue navi attraverso il Canale di Suez al golfo dell’Aqaba.
Fra il 1956 e il 1958, nel giro di due soli anni, i nazionalisti arabi tentarono la scalata al potere in molti paesi del Medio Oriente e non riuscirono a conseguire i loro scopi solo in seguito all’intervento di truppe occidentali. Fu il caso della Giordania e del Libano mentre in Iraq non si riuscì ad evitare la salita al potere di Abd Al Karim Kassem. Nel 1958 Siria ed Egitto decisero di fondersi in un unico Stato, la Repubblica Araba Unita (RAU) e all’iniziativa si associò anche il sovrano dello Yemen, l’imam Ahmad. L’ideale panarabo sembrava dunque sul punto di trionfare nell’intera regione, ma l’illusione durò solo un biennio.
La RAU si dissolse già nel 1960, perché i Siriani mal sopportavano l’egemonia egiziana. Tuttavia la vera fine della confederazione degli Stati arabi si ebbe con la morte del vecchio imam yemenita, succeduto dal figlio Muhammad al-Badr, dichiaratamente filo-occidentale: un gruppo di ufficiali filo-nasseriani compì nel 1962 un colpo di Stato e proclamò la repubblica. Il nuovo regime non riuscì ad affermarsi in tutto il paese e vi fu una violenta guerra civile. Nasser inviò un consistente corpo di spedizione a sostegno dell’ala repubblicana insediata nel sud del paese, ma data la natura montuosa del territorio questo rimase invischiato in quello che fu detto “Vietnam dell’Egitto” per analogia con il Vietnam degli USA. Un terzo di quel contingente era ancora bloccato nello Yemen quando nel 1967 divampò la terza guerra arabo-israeliana, meglio nota come guerra dei Sei Giorni (di cui tratteremo approfonditamente nel capitolo specifico). A sostegno dello Yemen del nord invece intervenne l’Arabia Saudita, un paese retto da una monarchia assoluta che aveva in Yemen forti interessi economici.
La breve esperienza della RAU e la guerra civile nello Yemen dimostrarono con eloquenza dei fatti quanto fosse utopica la vantata “fratellanza araba”: gli Stati arabi, infatti, costituivano un fronte comune solo nella lotta contro Israele. Per il resto ogni singolo Stato mirava ad imporre la propria egemonia agli altri paesi “fratelli” nonché all’intero Medio Oriente.